Even Cowgirls Get the Blues - Autostop

Quarto film di Gus Van Sant, Even Cowgirls Get the Blues è una delle sue opere più controverse, probabilmente la meno compresa. Presentato a Venezia nel 1993 in una versione di un’ora e cinquanta minuti, unanimemente considerata disastrosa e sconcertante dalla critica dell’epoca, (è stato nominato a 2 Razzie Awards: Peggior Attrice Uma Thurman - immeritato - e Peggior Attrice Non Protagonista Sean Young) uscì l’anno successivo accorciato di venticinque minuti con un montaggio leggermente differente e con l’aggiunta iniziale di una dedica a River Phoenix (col quale aveva lavorato nel ’91 per “My own private Idaho - Belli e dannati“), morto proprio l’anno precedente poco dopo la presentazione del film. Il film è stato tratto dall’omonimo romanzo di Tom Robbins del 1976. Personalmente considero il film di Van Sant un omaggio ad un eccentrico scrittore che dagli anni ’70 ha saputo stupire con uno stile assolutamente unico fatto di visionarietà e semplicità entro trame complicate e paradossali, popolate da un’umanità dimenticata e sorprendente, riconciliata con il pianeta, in armonia con esso. Gus Van Sant, lungo tutta la durata di Cowgirl, sembra impegnato nel tentativo di smontare parametri e luoghi comuni della società contemporanea. Tutto questo sforzo, senz’altro ambizioso, comporta inevitabili problemi di scelta di linguaggio. Cosicché si percepisce chiaramente che le maggiori difficoltà vengono dall’improbo tentativo di conciliare l’impianto visivo, e quindi anche le generose invenzioni registiche, con una sceneggiatura giocoforza frammentaria e slegata. Even Cowgirls Get the Blues ha una regia che cerca il più alto grado di adesione alle atmosfere hippy del romanzo, concretizzandolo in continue soluzioni stilistiche assai interessanti, che chiamerei psichedeliche (William S. Burroughs, oltre a comparire nel film in questione ed in Drugstore Cowboy, è da considerarsi fra i riferimenti culturali più importanti di Gus Van Sant, che della contro-cultura beat degli anni ’60 e ’70 ha saputo trarre molte caratteristiche fondanti della propria poetica) e che conferiscono al film le fattezze di una farsa, una festa di colori e situazioni bizzarre, da guardare con occhi pronti allo stupore e mente aperta alle meravigliose forme che l’amore può assumere. Even Cowgirls Get the Blues, racconta la vicenda di Sissy e del suo incontro con Bonanza Jellybean e con le altre ragazze in cerca del diritto di vivere la propria vita in un ranch tenuto da un despotico e misogino capo. Il mandriano (cowboy), figura maschile per antonomasia, diventa femminile (cowgirl) per mettere in evidenza la dura lotta che le donne del ranch si trovano a condurre. Sissy è un essere meravigliosamente A-socializzato, dedito alla pratica della libertà, libero di muoversi per gli Stati Uniti con la sola forza dei suoi pollici, portentosi strumenti che le permettono d’essere la più grande autostoppista di ogni epoca, una Dea del viaggio in grado di intercettare un passaggio anche nelle condizioni più improbabili, Dea il cui nome è leggenda, ed i cui poteri sembrano letteralmente miracolosi e soprannaturali. Memorabile la sequenza in cui Uma Thurman muovendo i pollici a mo’ di addetto alla pista di decollo e atterraggio d’un aeroporto direziona a suo piacimento un bimotore svolazzante per gli orizzonti infiniti d’un paesaggio americano. “La più grande libertà di movimento” (Greater Freedom of Movement), è questo quello che da bambina lesse sul dizionario sotto la voce “autostop” e che per sempre le rimase stampato nella mente, una specie di credo laico, un mantra che entra in testa allo spettatore tanto quanto alla giovane ed eccentrica creatura protagonista, un mantra inscritto in uno degli incipit filmici più accattivanti che possa capitare di vedere. Categoria
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